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Coltivazione di cibo in ambienti a gravità zero o ridotta: tecnologie attuali e in sviluppo

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Coltivazione di cibo in ambienti a gravità zero o ridotta: tecnologie attuali e in sviluppo

Riepilogo

La coltivazione di alimenti nello spazio – in microgravità o in condizioni di gravità ridotta come sulla Luna o Marte – è essenziale per supportare missioni umane di lunga durata lontano dalla Terra. Diverse tecnologie innovative sono in fase di studio e sviluppo per consentire la crescita di piante e altri organismi commestibili in queste condizioni estreme. Di seguito presentiamo un riepilogo delle principali soluzioni in esame, con esempi di progetti condotti da agenzie spaziali (NASA, ESA, JAXA), startup del settore agrospaziale e centri di ricerca accademici, evidenziando per ciascuna i principi di funzionamento, lo stato dell’arte, applicazioni pratiche future, vantaggi e sfide attuali:

Nei capitoli seguenti, ciascuna di queste categorie verrà approfondita, analizzando il funzionamento, i progressi attuali, esempi concreti di esperimenti o prototipi, le prospettive di utilizzo in missioni future e le principali sfide tecnologiche da superare.

Sistemi idroponici nello spazio

(Growing Plants in Space – NASA) Una astronauta della NASA cura colture di cavoli e lattughe nel sistema Veggie a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Veggie utilizza cuscini di substrato argilloso per trattenere acqua e nutrienti attorno alle radici in microgravità (Growing Plants in Space – NASA).

Principio di funzionamento: L’idroponica consiste nel far crescere le piante in assenza di terreno, immergendo o bagnando le radici con una soluzione nutritiva acquosa. In condizioni di gravità terrestre, questo sistema sfrutta la circolazione dell’acqua e la forza di gravità per distribuire uniformemente nutrienti e ossigeno alle radici. In microgravità, però, l’acqua non “scende” verso il basso ma tende a formare bolle e galleggiare. Pertanto, è necessario un supporto artificiale per trattenere l’acqua attorno alle radici e assicurare la giusta areazione: senza gravità le radici rischiano infatti di annegare in troppo liquido o, al contrario, di seccarsi se il liquido si allontana formando gocce (Growing Plants in Space – NASA). Per questo motivo nei sistemi idroponici spaziali si usano substrati porosi, stoppini o meccanismi a capillarità che trattengono l’acqua vicino alle radici ma garantiscono anche sacche d’aria. Si impiegano inoltre luci artificiali (LED) per sostituire la luce solare e ventilazione forzata per favorire lo scambio gassoso nelle foglie.

Stato dell’arte e sviluppi attuali: Sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), la NASA ha attivato con successo diversi sistemi idroponici sperimentali. Il più noto è Veggie, una piccola serra delle dimensioni di un bagaglio a mano, usata dal 2014 per coltivare insalate e fiori. Veggie utilizza cuscini riempiti di argilla e fertilizzante che fungono da terreno artificiale: i semi vi attecchiscono e il substrato distribuisce acqua, nutrienti e aria attorno alle radici in equilibrio (Growing Plants in Space – NASA). Con Veggie gli astronauti hanno già coltivato e consumato lattughe, cavoli cinesi, senape, cavolo riccio rosso e perfino fiori di zinnia (Growing Plants in Space – NASA). Dal 2015, infatti, alcune foglie di lattuga coltivate in Veggie sono state assaggiate dall’equipaggio – Mark Kelly e altri astronauti furono tra i primi a mangiare verdure “spaziali” nell’agosto 2015 (Science in Space: Week of July 10, 2023 – Plant Science – NASA). I raccolti sono monitorati per assicurare che non contengano patogeni: finora nessuna contaminazione dannosa è stata rilevata e i prodotti sono risultati sicuri e gustosi (Growing Plants in Space – NASA).

In parallelo, la NASA ha sviluppato l’Advanced Plant Habitat (APH), una camera di crescita completamente chiusa e automatizzata. APH dispone di sensori e controlli per irrigazione, umidità, composizione dell’atmosfera e illuminazione, il tutto regolabile da remoto dal centro di controllo a Terra (Growing Plants in Space – NASA) (Growing Plants in Space – NASA). Usa un substrato poroso simile a Veggie ma con maggiore automazione, richiedendo pochissimo intervento degli astronauti. Nel 2018 APH ha portato a termine con successo le prime colture sperimentali (arabidopsis e grano nano) a bordo della ISS (Growing Plants in Space – NASA) (Growing Plants in Space – NASA). Queste piattaforme stanno contribuendo a comprendere come la microgravità influisce sulla crescita delle piante a livello fisiologico e genetico (ad esempio studiando alterazioni nell’espressione genica, nell’accumulo di lignina, ecc.) (Growing Plants in Space – NASA).

Oltre agli hardware NASA, il segmento russo della ISS ha operato per anni il sistema Lada (una piccola serra idroponica sviluppata con il contributo dell’Utah State University). Tra il 2003 e il 2008, i cosmonauti hanno coltivato con Lada ben nove raccolti consecutivi di piselli, oltre a grano e verdure a foglia, certificando la sicurezza alimentare del raccolto (Peas, other edibles grow in experimental space greenhouse). Lada impiegava moduli radicali contenenti uno stoppino capillare che forniva soluzione nutritiva alle radici dei piselli, consentendo più generazioni di piante anche in microgravità. Questi raccolti sono stati parzialmente consumati dall’equipaggio e in parte riportati a Terra per analisi, dimostrando la fattibilità di coltivare cibi freschi a bordo della ISS (Peas, other edibles grow in experimental space greenhouse) (Peas, other edibles grow in experimental space greenhouse). Dopo i piselli, era in programma anche la coltivazione di riso e peperoni nello stesso sistema (Peas, other edibles grow in experimental space greenhouse).

Nei laboratori terrestri, vari centri di ricerca stanno sviluppando tecniche idroponiche innovative per lo spazio. La JAXA (agenzia spaziale giapponese) ha sperimentato un “sistema a sacchetto” sigillato: nel 2021 ha condotto su ISS una prova di coltivazione di lattuga all’interno di sacchetti di plastica trasparenti chiusi, contenenti la soluzione nutritiva (JAXA | The world’s first plastic culture bag technology demonstration experiment performed at the ISS’s Japanese Experiment Module “Kibo”) (JAXA | The world’s first plastic culture bag technology demonstration experiment performed at the ISS’s Japanese Experiment Module “Kibo”). L’idea è creare colture pre-confezionate monouso: i sacchetti impediscono contaminazioni batteriche e perdite d’acqua/odore, e dopo il raccolto possono essere smaltiti, riducendo la necessità di pulizia e manutenzione. In quell’esperimento, tre sacchetti di lattuga sono cresciuti con successo per 48 giorni a bordo di Kibo (il modulo giapponese della ISS), producendo foglie sane poi raccolte e analizzate (JAXA | The world’s first plastic culture bag technology demonstration experiment performed at the ISS’s Japanese Experiment Module “Kibo”) (JAXA | The world’s first plastic culture bag technology demonstration experiment performed at the ISS’s Japanese Experiment Module “Kibo”). I ricercatori giapponesi valutano che un tale approccio possa essere vantaggioso rispetto all’idroponica tradizionale in termini di semplicità e igiene, specialmente pensando a fattorie lunari compatte del futuro (JAXA | The world’s first plastic culture bag technology demonstration experiment performed at the ISS’s Japanese Experiment Module “Kibo”) (JAXA | The world’s first plastic culture bag technology demonstration experiment performed at the ISS’s Japanese Experiment Module “Kibo”).

Anche aziende private stanno entrando nel settore: Redwire (USA) ha annunciato lo sviluppo di una prima serra commerciale da lanciare in orbita, concepita per coltivare piante dal seme al raccolto interamente in microgravità (NASA: Let’s Ketchup on International Space Station Tomato Research – NASA). La serra Redwire, in via di realizzazione nel 2023, sarà installata probabilmente sulla ISS o su una stazione commerciale, e fornirà una piattaforma per testare la produzione di raccolti su scala più ampia nello spazio (NASA: Let’s Ketchup on International Space Station Tomato Research – NASA). Obiettivi simili ha Sierra Space con il suo concetto di Astro Garden, un grande orto orbitale modulare: in collaborazione con la NASA, Sierra Space è stata coinvolta proprio nella realizzazione del dimostratore XROOTS (vedi oltre) (A Novel Approach to Growing Gardens in Space – NASA Science) (A Novel Approach to Growing Gardens in Space – NASA Science). Diverse startup di “agricoltura spaziale” stanno inoltre adattando tecnologie di vertical farming e coltivazione indoor sviluppate per la Terra, rendendole più leggere, a ciclo chiuso e automatizzate, in vista di utilizzi extra-terrestri.

Esempi concreti di missioni/prototipi idroponici:

Applicazioni pratiche per missioni future: I sistemi idroponici saranno probabilmente il cuore dei “giardini spaziali” nelle missioni di lunga durata, come viaggi verso Marte (della durata di mesi o anni) e habitat permanenti su Luna/Marte. La possibilità di coltivare verdure a foglia, ortaggi e piccoli frutti fornirà agli astronauti cibo fresco ricco di vitamine e integrerà le razioni conservate, il cui contenuto vitaminico degrada nel tempo (Growing Plants in Space – NASA). Oltre al valore nutrizionale, la presenza di piante vive a bordo offre benefici psicologici importanti, migliorando l’umore e la qualità dell’aria. In una futura base lunare o marziana, serre idroponiche pressurizzate potranno riciclare parte dell’acqua e dell’aria: le piante consumano anidride carbonica ed emettono ossigeno, contribuendo al supporto vitale. Su Marte, la luce solare ridotta e l’atmosfera tenue richiederanno serre chiuse con illuminazione artificiale e idroponica per massimizzare la resa. La NASA prevede moduli di coltivazione integrati nei veicoli interplanetari o habitat di superficie come elementi chiave di sistemi bioregenerativi, riducendo il bisogno di rifornimenti terrestri (Algae ‘Bioreactor’ on Space Station Could Make Oxygen, Food for Astronauts | Space) (Algae ‘Bioreactor’ on Space Station Could Make Oxygen, Food for Astronauts | Space). Ad esempio, studi progettuali indicano che per sostenere un equipaggio di 4-6 persone con un apporto significativo di vegetali, occorrerebbero diversi metri quadrati di colture idroponiche ad alta densità, fattibile solo con strutture leggere e a ciclo chiuso adattate alla bassa gravità.

Vantaggi: L’idroponica in assenza di suolo evita di trasportare terra o utilizzare regolite locale (che potrebbe contenere percolati tossici). Permette un controllo preciso dei nutrienti e minimizza i consumi idrici tramite il ricircolo dell’acqua. Gli esperimenti ISS hanno dimostrato che, una volta risolte le sfide di distribuzione di acqua e aria, le piante crescono bene o addirittura meglio in microgravità con metodi idroponici ottimizzati (Science in Space: Week of July 10, 2023 – Plant Science – NASA). Inoltre, ogni chilogrammo di cibo fresco coltivato nello spazio è un chilogrammo in meno da lanciare dalla Terra, con enormi benefici in termini di costi e autonomia. L’assenza di parassiti esterni e l’ambiente controllato consentono produzioni pulite senza pesticidi.

Limiti e sfide aperte: La gestione dei fluidi in microgravità resta la sfida tecnica principale: sviluppare sistemi di irrigazione affidabili (pompe capillari, serbatoi a flusso controllato, materiali porosi) è oggetto di ricerca continua (A Novel Approach to Growing Gardens in Space – NASA Science) (A Novel Approach to Growing Gardens in Space – NASA Science). Sistemi come Veggie funzionano bene per piccole colture, ma scalare a volumi maggiori comporta problemi di massa, potenza e complessità (es. prevenire alghe o biofilm nei circuiti nutritivi, manutenzione dei filtri, sostituzione di substrati esauriti). La pulizia e sanificazione in ambiente chiuso è critica: residui organici e radici morte possono accumulare microbi indesiderati. Un altro limite è che molte colture cresciute finora sono a ciclo relativamente breve (insalate, erbe); coltivare piante più grandi o produttive (grano, riso, patate) richiederà volumi e tempi maggiori e soluzioni per gestire raccolti massivi e il riciclo degli scarti vegetali. Infine, l’idroponica produce principalmente vegetali freschi ma non proteine complete o calorie elevate: per una dieta completa bisognerà integrarla con altre fonti (ad es. legumi, colture amidacee o fonti proteiche alternative come alghe o insetti). Molte di queste sfide sono oggetto di progetti integrati (cfr. sezione ecosistemi chiusi) che cercano di combinare diverse tecnologie – idroponica, algocoltura, ecc. – in un sistema circolare completo.

Sistemi aeroponici

Principio di funzionamento: L’aeroponica è una variante estrema dell’idroponica in cui le radici delle piante sono sospese nell’aria e vengono regolarmente nebulizzate con una finissima nebbia di acqua ricca di nutrienti. In pratica, le piante crescono senza alcun substrato: le radici nude pendono in una camera buia, dove ugelli spruzzano periodicamente goccioline che le bagnano mantenendole umide e nutrite. Ciò assicura un’ottima ossigenazione radicale (l’aria circola liberamente attorno alle radici) e un utilizzo estremamente efficiente dell’acqua e dei fertilizzanti, poiché l’eccesso può essere raccolto e ricircolato. Sulla Terra, gli impianti aeroponici possono ridurre il consumo d’acqua del 98% rispetto all’agricoltura tradizionale e aumentare la velocità di crescita e il contenuto nutritivo delle piante grazie alla disponibilità ottimale di ossigeno e minerali (Experiments Advance Gardening at Home and in Space | NASA Spinoff ) (Experiments Advance Gardening at Home and in Space | NASA Spinoff ). Ad esempio, in condizioni controllate un ciclo di piantine di pomodoro può essere ridotto da 28 a soli 10 giorni prima del trapianto, permettendo fino a 6 raccolti all’anno invece di 1-2 (Experiments Advance Gardening at Home and in Space | NASA Spinoff ). Questi vantaggi – assieme all’assenza di suolo che alleggerisce il sistema – hanno attirato l’interesse di NASA e altri enti per applicazioni spaziali fin dagli anni ‘90 (Experiments Advance Gardening at Home and in Space | NASA Spinoff ).

Adattamento alla microgravità: In ambienti senza peso, l’aeroponica presenta sfide simili all’idroponica riguardo al comportamento dei fluidi, ma introduce anche problematiche peculiari: la nebulizzazione deve generare gocce abbastanza piccole da rimanere uniformemente distribuite e bagnare le radici, evitando al contempo che vaghino libere nell’ambiente. Si devono quindi progettare camere di radici sigillate e sistemi di spruzzo che funzionino in microgravità (dove la forma e traiettoria delle goccioline dipende più dalle forze di superficie che dal peso). A vantaggio dell’aeroponica c’è il fatto che non richiede substrati granulari potenzialmente pericolosi (nessun terriccio che possa fluttuare e contaminare la cabina) e minimizza la massa e il volume dell’acqua necessaria in circolazione. La difficoltà maggiore è controllare la dimensione delle gocce e prevenire la otturazione degli ugelli a causa di precipitati o biofilm, dato che la manutenzione in missione dovrebbe essere minima.

Stato dell’arte e progetti chiave: Per molti anni l’aeroponica nello spazio è rimasta a livello concettuale e di test a gravità simulata. Già nel 1997, NASA aveva collaborato con l’azienda AgriHouse del Colorado per sviluppare un primo esperimento aeroponico destinato alla stazione russa Mir (Experiments Advance Gardening at Home and in Space | NASA Spinoff ). Il fondatore di AgriHouse, Richard Stoner, aveva brevettato metodi per coltura aeroponica e con BioServe Space Technologies (Università del Colorado) preparò un apparato da testare in orbita (Experiments Advance Gardening at Home and in Space | NASA Spinoff ). Nonostante la fine del programma Mir, questa ricerca gettò le basi per applicazioni successive: AgriHouse trasferì la sua tecnologia anche a prodotti commerciali sulla Terra, come i piccoli orti domestici AeroGarden (derivati da design NASA) che oggi utilizzano capsule di semi protette per germinare senza suolo (Experiments Advance Gardening at Home and in Space | NASA Spinoff ) (Experiments Advance Gardening at Home and in Space | NASA Spinoff ). Curiosamente, elementi di queste capsule di semi aeroponici sono poi volati sulla ISS per esperimenti educativi su crescita di piante, dimostrando l’efficacia del concetto (Experiments Advance Gardening at Home and in Space | NASA Spinoff ) (Experiments Advance Gardening at Home and in Space | NASA Spinoff ).

Una concreta dimostrazione aeroponica in microgravità ha avuto luogo di recente con il progetto XROOTS sulla ISS. Come accennato, XROOTS (2022) fonde tecniche idroponiche e aeroponiche: alcune delle sue configurazioni di test prevedono radici esposte spruzzate con soluzione nutritiva, monitorando tramite video come il liquido interagisce con le radici in assenza di peso (A Novel Approach to Growing Gardens in Space – NASA Science) (A Novel Approach to Growing Gardens in Space – NASA Science). XROOTS ha sperimentato diversi design di interfaccia radice-gambo e vari protocolli di spruzzatura e recupero dei fluidi, coltivando più specie (da verdure a piante a radice come carote) per periodi fino a 60 giorni (A Novel Approach to Growing Gardens in Space – NASA Science) (A Novel Approach to Growing Gardens in Space – NASA Science). I risultati preliminari indicano che un sistema aeroponico chiuso può funzionare in orbita, aprendo la strada a sistemi scalabili per coltivare piante di maggiori dimensioni che richiedono maggior volume radicale (es. tuberi). I dati raccolti da XROOTS aiuteranno a progettare unità con spruzzatori robusti e controlli precisi del flusso in condizioni spaziali.

Sul fronte privato, startup ispirate da NASA hanno sviluppato versioni moderne di sistemi aeroponici: ad esempio Eden Grow Systems sta progettando moduli di coltivazione per habitat lunari con tecniche aeroponiche a torre, e la società AeroFarms (pioniere del vertical farming aeroponico sulla Terra) ha collaborato con centri di ricerca per valutare l’uso delle loro tecnologie in ambienti confinati spaziali. Anche la già citata Redwire Greenhouse in via di sviluppo prevede di testare cicli colturali completi e potrebbe includere elementi aeroponici per massimizzare la produzione in volumi ridotti (A Novel Approach to Growing Gardens in Space – NASA Science).

Applicazioni pratiche: In missioni molto lunghe o basi planetarie, l’aeroponica potrebbe essere impiegata per colture ad alto rendimento riducendo al minimo le risorse impiegate. Ad esempio, per fornire agli astronauti un flusso continuo di ortaggi freschi, moduli aeroponici a strati verticali potrebbero coltivare microverdure, patate dolci o legumi con cicli accelerati. L’assenza di suolo elimina il rischio di portare patogeni terrestri nel sistema chiuso e facilita il controllo fitosanitario. Inoltre, l’aeroponica ben si integra con ambienti a bassa gravità (Luna, Marte): anche se lì esiste una gravità parziale, restano preferibili sistemi senza terriccio (per evitare reazioni indesiderate con regolite locale e problemi di polvere). Un sistema aeroponico pressurizzato su Marte potrebbe utilizzare acqua estratta dal sottosuolo marziano, purificata e riciclata, per alimentare colture di volume relativamente elevato in habitat limitati. Ogni grammo di acqua è prezioso: la nebulizzazione ne minimizza l’uso e le perdite per evaporazione, un vantaggio critico dove l’acqua è scarsa.

Vantaggi: Oltre ai risparmi d’acqua e assenza di substrati pesanti, l’aeroponica può fornire più ossigeno alle radici, potenzialmente accelerando la crescita e aumentando il contenuto nutrizionale dei vegetali (Experiments Advance Gardening at Home and in Space | NASA Spinoff ). La crescita più rapida significa più raccolti nell’unità di tempo, utile per supportare nutrizionalmente l’equipaggio. Ogni componente è modulare: si possono progettare colonne di crescita smontabili, ottimizzando l’uso dello spazio tridimensionale di un modulo spaziale. Inoltre, l’ambiente radicale privo di terreno riduce drasticamente il rischio di malattie fungine o muffe che proliferano in ambienti umidi stagnanti – in un sistema aeroponico opportunamente sterilizzato le radici rimangono bianche e sane, e se una pianta si ammala può essere isolata facilmente senza contaminare un intero letto di suolo.

Limiti e sfide: L’aeroponica spaziale richiede sistemi meccanici affidabilissimi (pompe, ugelli) perché un guasto all’irrigazione porta rapidamente alla secchezza delle radici sospese. La manutenzione degli ugelli (che possono incrostarsi per i sali) è un punto dolente: si studiano ugelli ultrasonici o a vibrazione per generare aerosol finissimi senza fori che si ostruiscono. Contenere il vapore acqueo è essenziale: perdite o condensa fuori dal sistema potrebbero creare problemi nella cabina (ad esempio favorendo crescita microbica o corto circuiti). Serve poi bilanciare l’aeroponica con la necessità di supportare meccanicamente le piante: senza suolo, piante alte o da frutto devono essere ancorate a supporti per non fluttuare o cadere (in microgravità questo è meno problematico, ma in gravità lunare/marziana le piante avranno comunque un “peso” ridotto). Infine, come per l’idroponica, l’aeroponica da sola non chiude il cerchio del riciclo: genera biomassa non edibile (radici, foglie vecchie) e richiede input di nutrienti; dovrà quindi integrarsi in un ecosistema più ampio dove i rifiuti vegetali diventino risorse (ad esempio tramite compostaggio o bioreattori, come vedremo). Nonostante queste sfide, la NASA stessa riconosce che tecniche idroponiche e aeroponiche scalabili sono vitali per colture di larga scala nello spazio futuro (A Novel Approach to Growing Gardens in Space – NASA Science), dato che i metodi attuali con terriccio simulato non sarebbero gestibili su impianti estesi.

Bioreattori per microalghe e funghi

Principio di funzionamento: Oltre alle piante superiori, anche microorganismi fotosintetici (microalghe) e funghi possono essere coltivati per fornire cibo e rigenerare risorse in ambiente spaziale. I bioreattori sono dispositivi chiusi dove tali organismi crescono in condizioni controllate – ad esempio, una coltura liquida di alghe verde-azzurre esposta a luce artificiale, che consumi CO₂ e produca ossigeno e biomassa edibile. Le alghe (come Chlorella vulgaris o Spirulina) sono ricche di proteine, aminoacidi essenziali e vitamine, e crescono molto più rapidamente delle piante vascolari. I funghi, dal canto loro, possono decomporre scarti organici e convertirli in massa fungina commestibile (micoproteine) o fermentare substrati per produrre composti utili. In assenza di gravità, alghe e funghi – essendo forme relativamente semplici, spesso unicellulari o filamentose – possono adattarsi bene: le alghe galleggianti nel liquido restano sospese uniformemente (basta un rimescolamento gentile, ad esempio con bolle d’aria), e i funghi possono crescere su matrici porose o in liquido anch’essi, non necessitando di gravità per orientarsi. Ciò li rende ottimi candidati per sistemi bio-rigenerativi compatti, dove ad esempio l’equipaggio fornisce anidride carbonica, umidità e rifiuti organici, e riceve in cambio ossigeno e cibo da alghe e funghi.

Stato dell’arte – Microalghe: L’Agenzia Spaziale Europea ha investito molto nelle alghe attraverso il programma MELiSSA e specifici esperimenti sulla ISS. Nel 2019, un team tedesco di DLR ha lanciato sulla ISS il Photobioreactor (PBR), primo bioreattore di alghe testato in orbita come parte di un sistema ibrido di supporto vitale (Algae ‘Bioreactor’ on Space Station Could Make Oxygen, Food for Astronauts | Space). Il PBR coltivava la microalga Chlorella vulgaris in speciali pannelli illuminati: l’alga veniva nutrita con i gas di scarto della cabina (in particolare consumando la CO₂ prodotta dagli astronauti) e la sua fotosintesi generava ossigeno e biomassa commestibile ricca di proteine (Algae ‘Bioreactor’ on Space Station Could Make Oxygen, Food for Astronauts | Space) (Algae ‘Bioreactor’ on Space Station Could Make Oxygen, Food for Astronauts | Space). Questo bioreattore funzionava in parallelo con un sistema fisico-chimico avanzato (l’ACLS europeo) che rimuoveva la CO₂ dall’aria; insieme formavano l’esperimento PBR@ACLS, un approccio ibrido: parte della CO₂ veniva convertita in acqua e metano dall’ACLS, e la restante veniva assorbita dalle alghe nel PBR che restituivano ossigeno (Algae ‘Bioreactor’ on Space Station Could Make Oxygen, Food for Astronauts | Space). Era la prima volta che un organismo produceva ossigeno per il life support direttamente in orbita. Come dichiarato dal project manager Oliver Angerer (DLR), “con questa prima dimostrazione dell’approccio ibrido siamo all’avanguardia per i futuri sistemi di supporto vitale”, sottolineando la rilevanza per basi planetarie dove risorse limitate impongono sistemi chiusi (Algae ‘Bioreactor’ on Space Station Could Make Oxygen, Food for Astronauts | Space). L’esperimento ha confermato la vitalità di Chlorella in microgravità e la capacità di controllare una coltura di alghe nello spazio per lunghi periodi.

La scelta di Chlorella deriva dal suo alto contenuto proteico e dalla capacità di crescita veloce in vari ambienti. Già in passato, i russi negli esperimenti BIOS-3 (anni ‘70) avevano usato Chlorella per rigenerare ossigeno in un habitat chiuso in Siberia, e la NASA aveva studiato la spirulina come integratore alimentare per astronauti. Oggi MELiSSA (vedi sezione successiva) include un compartimento algale come uno dei pilastri per rigenerare aria e produrre cibo. La difficoltà con le alghe è rendere appetibile la biomassa: Chlorella pura ha un sapore forte e consistenza sgradevole, perciò si prevede di usarla mescolata ad altri cibi (ad es. trasformata in crackers o bevande). Resta il fatto che 1 kg di alga può contenere la metà di proteine del fabbisogno giornaliero di una persona, offrendo quindi un ottimo integratore se coltivata in situ.

A terra, numerosi prototipi di fotobioreattori per lo spazio sono in sviluppo: dall’Università di Stoccarda (coinvolta nel PBR ISS) a start-up che puntano a convertire CO₂ in cibo attraverso microbi. Un esempio interessante è la startup finlandese Solar Foods, che ha brevettato un processo per coltivare un particolare microbo (un batterio idrogenotrofo) producendo una farina proteica chiamata Solein – un processo concettualmente simile alla coltura di alghe, alimentato però da elettricità e CO₂ anziché luce e fotosintesi. NASA e ESA guardano con interesse a queste tecnologie di “food from air”, perché potrebbero un giorno permettere di nutrire gli equipaggi su Marte usando semplicemente l’anidride carbonica dell’atmosfera marziana, acqua e energia (fotovoltaica o nucleare) come input.

Stato dell’arte – Funghi e fermentazione: I funghi hanno ricevuto relativamente meno attenzione storicamente nello spazio, ma stanno emergendo come strumento versatile. Possono svolgere vari ruoli: 1) come produttori di cibo (ad es. funghi commestibili o micoproteine fermentate simili al “Quorn”), 2) come decompositori per riciclare rifiuti organici (compostaggio aerobico o enzimatico), 3) persino per materiali (biomateriali da costruzione, ma qui ci concentriamo sull’alimentare). Un progetto innovativo finanziato da NASA riguarda un fungo scoperto in ambienti estremi che viene coltivato come fonte di proteine: l’organismo, originario delle sorgenti calde di Yellowstone, è stato studiato per la sua capacità di crescere in condizioni estreme e con diverse fonti nutritive. Dalla ricerca NASA su questo microfungo è nata la società Nature’s Fynd, che produce alimenti vegani ad alto contenuto proteico fermentando il fungo in bioreattori. Nel 2022 NASA ha inviato su ISS campioni di questo fungo per vedere come cresce in microgravità, valutandolo “come possibile fonte proteica per missioni di lunga durata” (NASA Helps Serve Yellowstone Fungi for Breakfast – NASA) (NASA Helps Serve Yellowstone Fungi for Breakfast – NASA). Questo significa che attualmente gli astronauti stanno studiando in orbita la coltivazione di micoproteine per arricchire la dieta – un concetto fantascientifico fino a pochi anni fa, ora realtà.

Parallelamente, la NASA conduce studi sui funghi per altri scopi che hanno ricadute sul supporto vitale: il progetto Myco-architecture esplora l’uso del micelio fungino per “far crescere” habitat e strutture su Luna/Marte (NASA Advances Research to Grow Habitats in Space from Fungi) – sebbene questo non sia cibo, dimostra la fiducia nella robustezza dei funghi in ambienti spaziali. In ambito bioregenerativo, funghi come i basidiomiceti decompositori potrebbero essere introdotti in un ciclo chiuso per degradare residui vegetali non edibili (radici, steli duri) trasformandoli in compost o direttamente in biomassa fungina. Ad esempio, specie come Phanerochaete chrysosporium (fungo “marciume bianco”) digeriscono lignina e materiali legnosi, rilasciando composti semplici (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist) (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist) – ideale per smaltire ad esempio steli di cereali coltivati in una base planetaria. Altri come Aspergillus niger producono enzimi utili a scomporre cellulosa e amidi, facilitando la conversione di scarti in zuccheri fermentabili (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist). Questi processi di “mycoremediation” potrebbero mantenere pulito l’ecosistema chiuso e restituire nutrienti alle colture (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist) (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist).

La comunità scientifica sta coniando il termine “Astromicologia” per coprire questo nuovo filone: lo studio dei funghi nello spazio e delle loro applicazioni. I funghi potrebbero sintetizzare non solo cibo, ma anche vitamine, medicinali e materiali, il tutto in situ. Hanno dimostrato di poter prosperare in microgravità e anche in ipergravità, mantenendo o talora aumentando la produzione di certi metaboliti (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist) (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist). Inoltre alcuni funghi sono estremamente resistenti a radiazioni e ambienti ostili (si pensi ai funghi trovati a crescere persino all’interno del reattore di Chernobyl!). Questa resilienza li rende candidati perfetti per i primi esperimenti di biofabbriche su Luna o Marte. Immaginiamo in un futuro habitat lunare: armadi contenenti bioreattori con ceppi fungini che riciclano ogni scarto organico – dagli escrementi umani (dopo trattamento preliminare) alle foglie secche – e producono muffe commestibili ricche di proteine o prebiotici, chiudendo il ciclo dei nutrienti. Oppure fermentatori dove lieviti e funghi convertono zuccheri prodotti dalle alghe in sostanze utili (ad es. vitamine del gruppo B, alcool per sistemi sanitari, ecc.).

Esempi e progetti chiave (algal/fungal bioreactors):

  • Photobioreactor PBR@ACLS (ESA/DLR, ISS 2019) – Dimostratore di bioreattore algale integrato al Life Support Rack europeo (Algae ‘Bioreactor’ on Space Station Could Make Oxygen, Food for Astronauts | Space). Ha operato per vari mesi coltivando Chlorella su ISS, producendo ossigeno e qualche decina di grammi di biomassa. Ha mostrato la fattibilità del controllo automatico (nutrimento, pH, degasaggio) di colture algali in microgravità e l’integrazione con sistemi di supporto vitale fisico-chimici (Algae ‘Bioreactor’ on Space Station Could Make Oxygen, Food for Astronauts | Space).

  • MELiSSA Comparto Spirulina (ESA) – Nell’ambito del progetto MELiSSA, da anni si studia la coltivazione di Arthrospira platensis (spirulina) in bioreattori come fonte di cibo. Esperimenti di breve durata su voli parabolici e stazioni automatiche hanno testato la crescita di spirulina in condizioni sub-ottimali, con risultati positivi. Nel 2020, ad esempio, una campagna di esperimenti a bordo della stazione cinese Tiangong-2 (in collaborazione con ESA) avrebbe coltivato spirulina per verificare la produzione di ossigeno e biomassa (dati non pubblici dettagliatamente).

  • BioNutrients (NASA, ISS 2019-2025) – Serie di esperimenti che mirano a produrre nutrienti on-demand attraverso microbi. BioNutrients-1 e 2 si focalizzano su batteri e lieviti per ottenere vitamine (come B12) e yogurt, ma la piattaforma può essere estesa a funghi produttori di proteine. È un passo verso “fabbriche microbiche” nello spazio: l’equipaggio può attivare buste di coltura essiccate con acqua e ottenere dopo qualche giorno un prodotto nutriente. Ciò riduce la dipendenza da scorte preconfezionate a lunga conservazione.

  • Nature’s Fynd Fungus (NASA, ISS 2022) – Esperimento spinoff in cui ceppi di un fungo estremofilo (Fusarium strain) vengono coltivati in microgravità per valutarne la cinetica di crescita e la resa proteica (NASA Helps Serve Yellowstone Fungi for Breakfast – NASA) (NASA Helps Serve Yellowstone Fungi for Breakfast – NASA). L’obiettivo è capire se la produzione di micoproteina è influenzata dalla gravità, e in caso ottimizzare fermentatori spaziali per creare cibo proteico da semplice nutriente liquido.

  • Bioastronautics Test Chamber Compost – Nei test terrestri di NASA per sistemi chiusi (ad es. il Biomass Production Chamber a Kennedy Space Center negli anni ‘90), si è incluso un modulo di compostaggio con lombrichi e funghi per decomporre materiale vegetale. Questi studi hanno dimostrato che è possibile creare humus sterile in 30-60 giorni da scarti di raccolto, restituendo nitrati e fosfati utilizzabili. Tali moduli potrebbero un giorno essere miniaturizzati e implementati in missione per fertilizzare colture idroponiche con nutrienti biologici anziché chimici di sintesi.

Applicazioni future: I bioreattori di alghe e funghi avranno un ruolo complementare alle colture tradizionali nelle missioni di lunga durata. Un sistema bioregenerativo completo potrebbe usare alghe per bilanciare i gas respiratori (mantenere ossigeno e CO₂ in equilibrio) e fornire integratori alimentari, mentre i funghi potrebbero garantire una quota proteica e occuparsi di degradare i rifiuti organici. Su un viaggio verso Marte, un modulo compatto di alghe può fungere da “filtro vivo” per l’atmosfera interna: ad esempio 1 m³ di coltura algale ben illuminata può teoricamente riciclare la CO₂ espirata da un astronauta, producendo ossigeno equivalente e qualche decina di grammi di biomassa alimentare al giorno (Algae ‘Bioreactor’ on Space Station Could Make Oxygen, Food for Astronauts | Space). Sulle superfici planetarie, l’allevamento di alghe potrebbe sfruttare fonti locali: su Marte la CO₂ è abbondante in atmosfera, basterebbe fornire acqua liquida (estratta dal ghiaccio marziano) e energia solare in un fotobioreattore trasparente per iniziare a “coltivare aria commestibile”. Inoltre, le alghe potrebbero servire da mangime per acquacoltura spaziale: se mai portassimo pesci o insetti in una biosfera di avamposto, le alghe sarebbero un ottimo cibo per nutrirli, trasformandosi poi in proteine animali per gli astronauti.

I funghi, crescendo al buio, potrebbero trovare posto nei volumi inutilizzati di un habitat, come intercapedini o moduli sotto il pavimento, creando catene di riciclaggio nascoste ma preziose. Un concetto avanzato è quello di “fungal factories in space”: biofabbriche dove ceppi fungini geneticamente ottimizzati producono su richiesta non solo cibo, ma molecole farmacologiche (antibiotici, antiossidanti) e materiali (biopolimeri) (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist) (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist). Queste fabbriche potrebbero essere avviate durante la crociera interplanetaria per fornire risorse fresche all’arrivo su un pianeta. La ricerca suggerisce che alcune specie fungine in microgravità possono persino aumentare la sintesi di certi composti, offrendo potenzialmente nuove vie di biosintesi non disponibili a Terra (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist) (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist).

Vantaggi: I microorganismi come alghe e funghi hanno efficienze di conversione altissime: producono più biomassa edibile per unità di input (luce, nutrienti) rispetto alle piante superiori. Possono essere coltivati in sistemi chiusi ermetici, prevenendo contaminazioni incrociate con l’ambiente abitativo. Inoltre, diversificano la dieta oltre le verdure: le alghe apportano proteine, acidi grassi omega-3, vitamine (es. B12) difficili da ottenere dalle sole piante; i funghi forniscono proteine, fibre e una texture “carnosa” che può migliorare il gradimento dei pasti. Entrambi possono utilizzare rifiuti come risorsa: le alghe assimilano la CO₂ e gli scarti metabolici azotati, i funghi possono nutrirsi di residui vegetali o anche di sostanze inorganiche (alcuni lieviti possono crescere su substrati ricavati dall’urina trattata, recuperando azoto). Ciò aiuta a chiudere il cerchio ecologico riducendo la dipendenza da concimi chimici portati dalla Terra.

Limiti e sfide: Il controllo fine di un bioreattore biologico complesso in spazio è impegnativo. Bisogna prevenire contaminazioni da ceppi indesiderati (ad esempio alghe concorrenti o batteri che invadano la coltura di spirulina). Serve poi garantire omogeneità: in microgravità le alghe tendono ad aggregarsi se il flusso non è ben distribuito. La raccolta e lavorazione del prodotto è un altro aspetto: come separare efficacemente la biomassa algale dal liquido? (Si studiano filtri a membrana e centrifughe a bassa gravità artificiale). Nel caso di funghi, molti producono spore – occorre evitarne la dispersione nell’abitacolo, per non creare rischi respiratori all’equipaggio. Quindi i reattori fungini devono avere filtri HEPA e sistemi di contenimento robusti. Inoltre, non tutta la biomassa generata è consumabile: ad esempio, Chlorella ha una parete cellulare dura che l’uomo fatica a digerire, quindi va rotta meccanicamente o con enzimi. Tutto ciò aggiunge complessità meccanica (molitura, estrazione) ai sistemi. Dal lato accettazione umana, mangiare alghe e funghi come alimento base richiede adattamento – dovranno essere integrati in ricette appetitose per evitare la “fatica da menu” negli astronauti. Fortunatamente, le generazioni future di esploratori potrebbero essere più abituate a questi cibi alternativi man mano che diventano comuni anche sulla Terra (già oggi la spirulina è un superfood diffuso e le proteine da fermentazione sono usate in vari prodotti). Infine, rimane da validare il comportamento a lungo termine: le colture microbiche in un ecosistema chiuso potrebbero evolvere, mutare o perdere efficienza dopo mesi o anni; serviranno protocolli per rinnovare i ceppi periodicamente o controllarne l’evoluzione (ad es. conservando semi/spore di riserva congelate da “riavviare” all’occorrenza). Malgrado queste sfide, la comunità scientifica concorda che alghe e funghi saranno componenti cruciali dei sistemi di supporto vitale di prossima generazione per l’esplorazione spaziale sostenibile (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist) (From Earth to space – exploring fungi in extraterrestrial environments | Features | The Microbiologist).

Ecosistemi chiusi e biorigenerativi

Definizione e obiettivi: Un ecosistema chiuso biorigenerativo è un sistema integrato in cui piante, alghe, funghi, batteri e esseri umani coesistono in un ambiente isolato, scambiandosi materia in cicli ricorrenti. L’obiettivo è la autosufficienza: rigenerare localmente ossigeno, acqua e cibo a partire dai rifiuti metabolici (CO₂, urine, scarti organici), riducendo al minimo o eliminando del tutto la necessità di rifornimenti esterni. In pratica, si tratta di creare una mini-biosfera autosostenibile, in cui i sottoprodotti di una specie diventano risorse per un’altra in un ciclo virtuoso (ad es: gli esseri umani producono CO₂ e rifiuti organici, che nutrono alghe e piante; queste producono O₂ e cibo; i rifiuti vegetali vengono decomposti da funghi e batteri, restituendo nutrienti alle piante; e così via). Questo concetto viene spesso indicato con l’acronimo CELSS (Controlled Ecological Life Support System) o BLSS (Bioregenerative Life Support System) (Frontiers | A Plant Characterization Unit for Closed Life Support: Hardware and Control Design for Atmospheric Systems).

Stato dell’arte – progetti storici: La ricerca sugli ecosistemi chiusi ha una lunga storia. Già negli anni ’60-’70, i sovietici costruirono a Krasnoyarsk l’impianto BIOS-3, composto da tre camere di coltivazione di piante e un modulo abitativo sigillato: vi condussero esperimenti pionieristici tenendo equipaggi umani isolati per mesi con successo parziale – le piante (grano, alghe Chlorella) riciclavano fino al 80% dell’aria respirabile e fornivano circa il 50% del cibo necessario ai partecipanti (Chinese volunteers live in Lunar Palace 1 closed environment for 370 days). Negli anni ’90 negli USA vi fu l’ambizioso esperimento Biosfera 2 in Arizona: una struttura gigante serrata che ospitò 8 persone per 2 anni, con foresta, deserto, oceanario e agricoltura interna. Biosfera 2 non riuscì a chiudere completamente i cicli (emersero problemi come ipercrescita di batteri nel suolo che abbassarono l’ossigeno, costringendo a immetterne dall’esterno) (Chinese volunteers live in Lunar Palace 1 closed environment for 370 days), però fu estremamente istruttiva. Entrambi gli esperimenti dimostrarono quanto sia complesso bilanciare un ecosistema in miniatura, ma anche che è possibile avvicinarsi alla sostenibilità ciclica con giuste proporzioni di piante e gestione attiva.

Negli ultimi decenni, le agenzie spaziali hanno fatto progressi più incrementali. La NASA, nel programma Advanced Life Support, condusse vari test a Terra: al Johnson Space Center una serie di test di permanenza in camera chiusa (Lunar-Mars Life Support Test Project, 1995-97) fece vivere volontari in moduli sigillati fino a 91 giorni, usando colture idroponiche di grano, patate e insalata per rigenerare parte dell’aria e cibo, e sistemi fisico-chimici per il resto. Al Kennedy Space Center fu operativa la Biomass Production Chamber, una ex-cella frigorifera trasformata in serra chiusa, dove negli anni ’90 si coltivarono grano e insalata intensivamente per valutare rese e recupero di acqua mediante traspirazione/condensa. Anche il Mars Lunar Greenhouse dell’Università di Arizona (prototipo cilindrico di 5.5m x 2m) ha mostrato in test di poter sostenere la produzione continua di ortaggi e contemporaneamente riciclare l’acqua traspirata dalle piante condensandola su pareti interne per reirrigare (un ciclo chiuso dell’acqua efficiente al ~100%) (UA-CEAC Prototype Lunar Greenhouse :: Phase II). Questo prototipo fungeva anche da bioreattore: un comparto con colonie batteriche convertiva l’urina in soluzione nutritiva per le piante. Tali esperimenti a bassa scala hanno convalidato singole funzioni (riciclaggio acqua, coltura continua, ecc.) ma non hanno ancora integrato tutti i flussi con presenza umana prolungata.

In Europa, il principale progetto è MELiSSA (Micro Ecological Life Support System Alternative), guidato dall’ESA fin dal 1989. MELiSSA adotta un modello a 5 compartimenti ispirato a un lago acquatico (ESA – Life support pilot plant paves the way to Moon and beyond): nel primo compartimento batteri anaerobi degradano rifiuti organici; nel secondo altri batteri nitrificanti convertono l’ammoniaca in nitrati; nel terzo microalghe (o piante acquatiche) consumano CO₂ e producono O₂ e biomassa; nel quarto compartimento crescono piante superiori commestibili; infine il quinto compartimento è l’habitat umano (il “consumatore”). Dopo anni di ricerca su ciascun elemento, MELiSSA ha un impianto pilota a Barcellona, inaugurato nel 2009 (ESA – Life support pilot plant paves the way to Moon and beyond) (ESA – Life support pilot plant paves the way to Moon and beyond), dove 40 topi (equivalenti a un umano in termini di respirazione) sono stati tenuti in vita per oltre 2 anni con atmosfera rigenerata dai comparti di alghe e batteri (ESA – Life support pilot plant paves the way to Moon and beyond). Questo pilot plant continua ad evolvere: nel 2018 si è riusciti per la prima volta a far respirare a un essere umano ossigeno prodotto al 100% dalle alghe MELiSSA in una sottosezione dell’impianto (evento dimostrativo simbolico). Il progetto sta ora focalizzando l’attenzione sulla produzione di cibo: è attivo un Food Characterization Unit per valutare la qualità nutrizionale e sicurezza delle biomasse edibili prodotte nei vari comparti (alga spirulina, piante). Inoltre, MELiSSA collabora con JAXA e altre agenzie, segno di uno sforzo globale. JAXA stessa ha portato avanti negli anni 2000 un proprio laboratorio di ecosistemi chiusi chiamato CEEF in Giappone (Closed Ecology Experiment Facilities), dove si sperimentò un habitat con capre, colture di riso e patate, e sistemi biologici di trattamento aria/acqua. CEEF condusse test di 2 settimane con persone e animali, coprendo circa l’80% di riciclo di O₂ e acqua, e produzione parziale di cibo.

La Cina più di recente ha fatto passi da gigante: il progetto Yuegong-1 (Lunar Palace 1) presso Beihang University ha creato un modulo chiuso con due stanze di coltivazione e un living per 2-3 persone. Tra 2017 e 2018, due equipaggi cinesi di studenti si sono alternati vivendo complessivamente 370 giorni continui in Lunar Palace 1, stabilendo un record mondiale (Chinese volunteers live in Lunar Palace 1 closed environment for 370 days) (Chinese volunteers live in Lunar Palace 1 closed environment for 370 days). Durante l’esperimento “Lunar Palace 365”, i volontari hanno coltivato 35 specie di piante (cereali, ortaggi, frutta) in idroponica, allevato anche insetti commestibili (tarme della farina) per proteine, e gestito sistemi di compostaggio con microbi. Il risultato dichiarato è impressionante: la produzione vegetale ha soddisfatto completamente il fabbisogno di cibo di origine vegetale dell’equipaggio, con un riciclo quasi totale di aria e acqua (Lunar Palace 1: Treatment performance and microbial evolution) (Yuegong-1 – Wikipedia). Solo pochi rifornimenti esterni furono necessari (soprattutto alcuni integratori e manutenzione tecnica). L’aria era mantenuta respirabile grazie alle piante, e l’acqua riciclata attraverso condense e filtrazione (Chinese volunteers live in Lunar Palace 1 closed environment for 370 days). Questo successo indica che la Cina è riuscita a bilanciare un ecosistema a scala quasi reale per un anno, un passo cruciale verso basi lunari autosufficienti che il paese pianifica per il futuro prossimo (Chinese volunteers live in Lunar Palace 1 closed environment for 370 days).

Elementi chiave di un ecosistema chiuso:

  • Camere di coltivazione delle piante: forniscono cibo, ossigeno e assorbono CO₂. Devono essere dimensionate in base al numero di persone. Ad esempio, per sostenere 1 persona servono circa 15–25 m² di superficie fogliare ben illuminata (piante a crescita rapida) per produrre ossigeno sufficiente e ~50% del suo cibo. Nei sistemi moderni si usano strati verticali idroponici, LED e controllo climatico preciso.

  • Bioreattori di alghe e/o batteri: integrano le piante riciclando gli scarti e producendo ulteriori risorse. Un compartimento di fermentazione può trasformare rifiuti in fertilizzanti; un fotobioreattore di alghe colma gap di O₂ durante il buio o integra la produzione alimentare proteica.

  • Modulo abitativo: contiene gli esseri umani e a volte piccoli animali (in alcuni esperimenti si includono animali come pesci o quaglie per simulare la presenza di consumatori secondari). I parametri vitali (CO₂, O₂, umidità, ecc.) sono monitorati e regolati scambiando aria/acqua con i moduli biologici.

  • Sistemi di controllo ambientale (ECLSS): anche in un BLSS, esistono componenti meccanici/fisici per regolare ciò che i bio-processi da soli non riescono. Ad esempio filtri, scambiatori di calore, accumulatori di gas, illuminazione artificiale, unità di osmosi per purificare l’acqua. Questi garantiscono stabilità e intervengono se la parte biologica ha fluttuazioni (es: un backup di ossigeno chimico se le piante immature non producono ancora abbastanza).

Vantaggi potenziali dei BLSS: Un ecosistema chiuso efficiente permetterebbe missioni indipendenti dalla Terra per periodi indefiniti, trasformando habitat in vere astronavi generazionali o colonie sostenibili. In un’ottica di esplorazione, ridurre i rifornimenti significa poter inviare equipaggi più numerosi o restare più a lungo. Anche parziali implementazioni portano benefici: ad esempio un sistema che ricicli il 90% dell’acqua e produca il 40% del cibo riduce drasticamente la massa logistica. Inoltre, un BLSS ben progettato smaltisce e utilizza i rifiuti che altrimenti andrebbero accumulati o espulsi (problema critico nelle missioni attuali). I sottoprodotti come ossigeno fresco, acqua pulita e verdure hanno ovvi benefici per il benessere dell’equipaggio. Dal punto di vista della ricerca, realizzare un ecosistema funzionante su un altro mondo sarebbe una prova di concetto che la vita terrestre può prendere piede altrove, con implicazioni filosofiche e scientifiche profonde.

Sfide attuali: La complessità di controllo è enorme. Un BLSS combina biologia, chimica, ingegneria e fattori umani. Mantenere la stabilità richiede sistemi di monitoraggio in tempo reale di gas, nutrienti, popolazioni microbiche, ecc., con algoritmi di controllo sofisticati (spesso AI) per prevenire derive (ad esempio, evitare che certi batteri prendano il sopravvento riducendo troppo l’ossigeno, come accadde in Biosfera 2). Ogni componente aggiunge potenziali punti di fallimento: malattia in una coltura di piante, infezione in vasche di alghe, tossine inaspettate da un metabolismo batterico, e anche fattori psicologici (gli umani confinati in un ecosistema piccolo possono sperimentare stress e devono adattarsi a diete monotone). Serve molta ridondanza e backup: tipicamente si prevede di affiancare ad un BLSS anche sistemi tradizionali (ad es. bombole di O₂ e cibo di riserva) in caso qualcosa vada storto. Dal punto di vista tecnologico, miniaturizzare l’ecosistema per ambienti ristretti (capsule) mantenendo efficienza è complicato: i rapporti superficie-volume sfavoriscono i sistemi piccoli (ad esempio, con poche piante è difficile assorbire sbalzi improvvisi di CO₂). È più facile chiudere un ciclo in grande (Biosfera 2 era di 3 ettari) che in un modulo di pochi metri cubi; e nello spazio, l’energia limitata e la mancanza di gravità aggiungono vincoli.

Nonostante questi ostacoli, la traiettoria è chiara: si procede a step incrementali. Prima si integrano 2-3 elementi (piante + biofiltro per acqua + crew), poi si aggiungono alghe, poi si chiude il loop dei nutrienti con decompositori. Ogni agenzia sta pianificando dimostratori a tappe: ESA ad esempio punta a una MELiSSA integrale in Antartide come prossimo test (sulla scia del successo della serra EDEN ISS che, pur non essendo un BLSS completo, ha fornito cibo fresco in un ambiente estremo). La NASA con il programma Artemis prevede di testare piccoli ecosistemi sulla Gateway o in basi analoghe sulla Luna, usando l’esperienza ISS (dove già oggi coesistono sistemi fisico-chimici e piccole colture).

In sintesi, un ecosistema chiuso e biorigenerativo rappresenta la sintesi ultima di tutte le tecnologie descritte finora: idroponica/aeroponica per piante, bioreattori per alghe e funghi, sistemi di controllo ambientale, automazione e gestione dei flussi di massa ed energia. Il progetto MELiSSA ne è un perfetto esempio integratore, definito come “ecosistema artificiale per recuperare cibo, acqua e ossigeno dai rifiuti” (ESA – Life support pilot plant paves the way to Moon and beyond). I suoi progressi – dal pilot plant con ratti al coinvolgimento di equipaggi umani – mostrano che stiamo avanzando verso la realizzazione di sistemi olistici. Come dichiarato dal direttore dell’ESA Jean-Jacques Dordain, “la convalida di processi di supporto vitale altamente rigenerativi è un passo obbligato verso future missioni umane di lunga durata” (ESA – Life support pilot plant paves the way to Moon and beyond). L’entusiasmo è temperato dalla consapevolezza delle sfide, ma ogni successo (come Lunar Palace 1 in Cina) rinnova la fiducia che un giorno prossimi esploratori potranno respirare aria e bere acqua prodotte interamente dal loro piccolo giardino spaziale, vivendo tra piante, alghe e funghi che li accompagnano come silenziosi e indispensabili compagni di viaggio.

Fonti selezionate:

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